Le memorie del trauma sono entità cognitive alternative

 

 

GIOVANNA REZZONI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 09 dicembre 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

I pazienti affetti da disturbo post-traumatico da stress (PTSD) esperiscono quotidianamente forme di rimemorazione del trauma, che appaiono improvvisamente alla coscienza indipendentemente dal corso dei pensieri come un nuovo attualizzarsi della sofferenza acuta vissuta al momento dell’evento traumatico. Questo sintomo, spesso definito “intrusivo” perché si intromette nella vita mentale del paziente contro la sua volontà, può andare da un semplice ritorno di sofferenza, come uno schianto, a una completa riviviscenza dell’accaduto, e certamente per uno psichiatra esperto costituisce qualcosa di differente da un ricordo episodico rievocato per effetto di stimoli percettivi, comunicativi o per un processo deliberato di rimemorazione intenzionale. Tuttavia, per ragioni intuitive, la ricerca biologica che indaga le basi fisiopatologiche dei sintomi del PTSD su modelli sperimentali ha equiparato questo ritorno intrusivo alle memorie del paradigma sperimentale di apprendimento condizionato della paura.

Negli studi condotti con metodologia psicologica su volontari umani si è indagata la possibilità di rilevare differenze tra memorie negative e rimemorazione del trauma da PTSD, senza riuscire a oggettivare una caratterizzazione. La postulazione di uno stato cerebrale funzionale “unico”, ossia del tutto specifico per le rievocazioni traumatiche spontanee, è stata considerata una pura speculazione fino ad oggi, perché solo evidenze minime possono essere invocate a supporto di questa ipotesi.

Ofer Perl e colleghi hanno esaminato l’attività neurale di pazienti affetti da PTSD alla ricerca di conferma o smentita della tesi di una base neurale specifica, con un esito veramente degno di nota.

(Perl O. et al., Neural patterns differentiate traumatic from sad autobiographical memories in PTSD. Nature Neuroscience 26, 2226-2236, 2023 – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41593-023-01483-5, 2023).

La provenienza degli autori è la seguente: Center for Computational Psychiatry, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA); Department of Psychiatry, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA); Nash Family Department of Neuroscience, Icahn School of Medicine at Mount Sinai, New York, NY (USA); Department of Epidemiology, Biostatistics and Community Health Sciences, School of Public Health, Ben-Gurion University of the Negev, Beer-Sheva (Israele); Department of Psychiatry, Yale University School of Medicine, New Haven, CT (USA); The National Center for PTSD, VA CT Healthcare System, West Haven, CT (USA); Departments of Comparative Medicine and Neuroscience, Yale University School of Medicine, New Haven, CT (USA); Department of Psychology and the Wu Tsai Institute, Yale University School of Medicine, New Haven, CT (USA).

La settimana scorsa, presentando i contenuti salienti del numero monografico di PNAS USA dedicato alla neurobiologia dello stress, abbiamo proposto un excursus che va dalla prima identificazione e descrizione di un disturbo da stress fino alla prime documentazioni mediante risonanza magnetica nucleare (MRI, da magnetic resonance imaging) di lesioni da stress dell’ippocampo e di altre sedi cerebrali; qui riproponiamo per comodità del lettore alcuni brani tratti da quell’esposizione, rimandando al testo integrale per una trattazione più completa[1].

“Nel 1871, durante la Guerra civile Americana, un medico di nome Da Costa[2] descrisse una sindrome che colpiva i soldati esposti allo stress del combattimento, caratterizzata da spossatezza, irritabilità, costante stato di allerta, elevata frequenza cardiaca ed accentuazione generalizzata delle risposte fisiologiche. Da Costa focalizzò l’attenzione sulle manifestazioni cardiovascolari, facilmente rilevabili con la semeiotica fisica, per l’aumento della forza di contrazione cardiaca associato a tachiaritmie ed innalzamento della pressione arteriosa, e si rese conto dell’origine “riflessa” dei sintomi. Definì, perciò, questa patologia Soldier’s Irritable Heart (cuore irritabile del soldato).

Da notare che Da Costa considerò il cuore irritabile parte di una sindrome di attivazione da stress interessante tutto l’organismo e, anche se ne studiò solo gli aspetti organici, ne comprese a fondo l’eziologia psichica dovuta alle condizioni di paura e di tensione estreme[3].

Il cuore irritabile del soldato fu da allora ribattezzato con l’eponimo del medico americano, Da Costa’s Syndrome, la cui descrizione è importante perché rappresenta la prima formulazione nosografica di un disturbo da stress[4].

La portata di questa osservazione, analizzata e approfondita più volte nei seminari dal nostro presidente, si comprende meglio se si tiene conto del fatto che nell’Ottocento vigeva ancora una dicotomia interpretativa, che considerava vera patologia quella in cui era dimostrabile diagnosticamente una lesione organica o un’alterazione patologica delle funzioni esplorabili dell’organismo, mentre escludeva il danno sine materia, come lo star male per cause psichiche, dalle condizioni di interesse medico. Il dolore morale era considerato materia per preti, poeti e narratori, lontano dagli interessi della scienza e dalle possibilità della terapia, soprattutto nella gamma compresa tra la disdicevole debolezza della sofferenza amorosa e la colpevole viltà della paura di fronte al nemico[5]. Da Costa invece, col suo “cuore irritabile”, fa entrare nella nosografia medica come patologia cardiologica la paura traumatica dovuta all’esperienza di impotenza del singolo di fronte ad un evento mortale improvviso, associato a un fragore in grado di evocare anche negli animali la reazione di fuga, e contro il quale non vale astuzia, intelligenza, forza fisica o addestramento[6].

Dopo l’osservazione del medico americano, in Europa Emil Kraepelin – uno psichiatra di caratura accademica internazionale noto per la sua opera nosografica e per il contributo allo studio della dementia praecox, definita schizofrenia dal suo allievo Eugen Bleuler – introdusse la categoria della schreckneurose[7], letteralmente “nevrosi da spavento”[8], resa in inglese con fright neurosis e adottata negli anni seguenti nella denominazione diagnostica di disturbi indotti da eventi bellici.

Kraepelin non azzarda ipotesi sui meccanismi alla base della fisiopatologia ma, forse anche tenendo in considerazione i dettagliati resoconti di Da Costa, non sottovaluta la risposta neurovegetativa cardiovascolare, ritiene che il processo sia di origine psichica con estesa e intensa espressione organica, e cerca di spiegarlo con queste parole: “[una condizione] composta da molti fenomeni nervosi e psichici insorgenti come risultato di un grave sconvolgimento emozionale o di un improvviso spavento che abbia accumulato grande ansietà”[9].

La prima edizione del Manuale Diagnostico e Statistico (DSM) dell’American Psychiatric Association, pubblicata nel 1952, per effetto dei numerosi studi sulla vasta casistica di patologia da stress causata dalla II Guerra Mondiale, include la categoria diagnostica della gross stress reaction. La seconda edizione del DSM, edita nel 1968 a una generazione di distanza dagli eventi bellici, elimina la diagnosi di gross stress reaction, legata dunque solo alla guerra.

Seguiamo ciò che accade riprendendo la lettura del saggio del nostro presidente:

“Ma i temi e i problemi della psicopatologia traumatica furono drammaticamente riproposti da un altro conflitto: la guerra del Vietnam.

Lawrence Kolb, assistendo e trattando i reduci della guerra del Vietnam, ebbe l’opportunità di studiare a fondo le loro condizioni, riportando in auge le conoscenze acquisite in passato ed apportando rilevanti contributi originali. Fra questi, il riscontro di un rapporto fra la condizione fisiopatologica sistemica e lo stato psichico generale, originò da un’osservazione casuale. Infatti gli capitò di osservare, non visto, i suoi pazienti in attesa nella sua sala d’aspetto: dov’erano seduti gli volgevano le spalle ed aspettavano il loro turno mentre la sua segretaria scriveva a macchina. Lo psichiatra americano notò che ogni volta che il carrello della macchina da scrivere della sua segretaria segnalava la fine della riga con il tipico suono di campanello, i pazienti sobbalzavano. Avevano un vero e proprio sussulto sulla sedia. Kolb chiamò questa reazione startle response e l’attribuì ai livelli di nor-adrenalina cronicamente alti in queste persone, come conseguenza dello stress”[10].

Sulla scorta di questi studi, e soprattutto di quelli di Charles Figley sui veterani del Vietnam[11], si giunse nel 1980 a includere nella terza edizione del DSM, detto DSM III, la diagnosi di Post Traumatic Stress Disorder.

L’anno dopo comincia l’era contemporanea nello studio dei danni causati dalla guerra, con il progressivo passaggio della priorità dallo studio della sintomatologia clinica alle indagini sul cervello, favorite dalle nuove metodiche di diagnostica per immagini, e in particolare dall’impiego della risonanza magnetica nucleare (RMN).

L’orientamento verso l’accertamento diretto di danni cerebrali nell’uomo è stato anche indotto in quegli anni dall’enorme mole di dati della ricerca preclinica che aveva mostrato vari tipi di danno da stress nel cervello animale, dal livello molecolare, di neurotrasmettitori e recettori, fino al livello di sistemi e strutture particolarmente vulnerabili, quali ippocampo, amigdala e corteccia cerebrale.

“Sulla base di queste evidenze il gruppo di Douglas Bremner intraprese uno studio per verificare l’ipotesi del danno organico. Sottoposero ad un’accurata indagine morfologica mediante RMN un campione di veterani affetti da PTSD, comparandoli con un gruppo di controllo costituito da persone non affette, ma in tutto equivalenti per caratteristiche. Risultò che gli affetti da patologia psichica da trauma avevano un ippocampo di dimensioni ridotte rispetto ai controlli normali. In particolare, l’ippocampo di destra risultava, in media, inferiore dell’8%. Inoltre, la gravità del disturbo di memoria era direttamente proporzionale alla perdita di volume ippocampale. Questa ricerca, condotta nel 1995, evidenziò per la prima volta un danno da stress nel cervello umano”[12].

Lo studio che ha registrato la maggiore riduzione di volume dell’ippocampo in affetti da PTSD è stato condotto da Gurvits in veterani della guerra del Vietnam. Il risultato ha mostrato una riduzione bilaterale del volume dell’ippocampo del 26% ed una significativa correlazione con il livello di esposizione al combattimento misurato con la Combat Exposure Scale[13].

 

Ritorniamo allo studio di Ofer Perl e colleghi qui recensito. Come si è detto, sebbene l’esperienza della clinica psichiatrica indichi che il ritorno come flash di coscienza del trauma subito nel PTSD sia qualcosa di sostanzialmente diverso dall’esperienza ordinaria di ricordi negativi, finora non sono stati accertati elementi diacritici oggettivi per distinguere i due fenomeni mnemonici. E la stessa convinzione che le reminiscenze intrusive fossero espressione di un processo specifico è rimasta solo un’ipotesi fino a questo studio. Perl e colleghi hanno esaminato l’attività neurale di pazienti affetti da PTSD messi all’ascolto di racconti descriventi i contenuti delle loro memorie. Un’analisi di similarità rappresentazionale intersoggettiva di contenuti semantici cross-soggetto e dei pattern neurali ha rivelato una differenziazione nella rappresentazione ippocampale per tipo di racconto: memorie autobiografiche tristi semanticamente simili hanno evocato simili rappresentazioni neurali nei cervelli dei volontari esaminati. Per contrasto, all’interno degli stessi individui memorie del trauma semanticamente simili erano rappresentate in modo diverso.

I ricercatori sono stati in grado di decodificare il tipo di memoria dai pattern multivoxel dell’ippocampo.

Un altro aspetto interessante dello studio è consistito nell’ottenere questo reperto: la gravità dei singoli sintomi modulava la rappresentazione semantica dei contenuti narrativi dell’esperienza traumatica nella corteccia posteriore del giro del cingolo.

L’insieme di tutto quanto emerso da questo studio indica che le memorie traumatiche costituiscono un’entità cognitiva alternativa, che devia dal concetto neurofisiologico tradizionale di memoria.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni

BM&L-09 dicembre 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Note e Notizie 02-12-23 Emergenza mondiale e neurobiologia di stress e depressione.

[2] J. Douglas Bremner, Does Stress Damage the Brain?, p. 27, Norton, New York 2002.

[3] Da Costa J. M., On irritable heart: A clinical study of a form of functional cardiac disorder and its consequences. American Journal of Medical Science 161, 17-52, 1871.

[4] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), pp. 13-14, Dipartimento di Neuroscienze dell’Università Federico II, Napoli 2005.

[5] Cfr. Monica Lanfredini & Giuseppe Perrella, Coraggio e Paura da Aristotele a Freud. Relazione al Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2006.

[6] È ciò che connota e caratterizza la differenza tra guerra antica, fatta di duelli di forza e abilità “uomo contro uomo”, e guerra moderna, dominata da cannoni e mine. La concezione mitizzata del coraggio degli eroi del mondo classico rimane, ma la realtà è del tutto cambiata: l’antico doveva sapersi battere con forza fisica e armi bianche, imparando a ripararsi per evitare l’insidia delle frecce; il moderno si trova di fronte a una realtà in cui l’uomo fa la guerra usando strumenti che assomigliano a quelli dei cataclismi naturali, più che a delle armi per rendere letale un singolo su un altro.

[7] Giuseppe Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD), op. cit., p. 14.

[8] Cfr. Saigh P. A. & Bremner J. D. (editors), Posttraumatic stress disorder: a comprehensive text, Allyn & Bacon Needham Heights, Massachusetts, 1999, cit. in J. Douglas Bremner, op. cit., p. 71.

[9] Emil Kraepelin, Psychiatrie, Vol. V, p. 737, Auflage, Barth, Leipzig (1896-1985), qui citato nella traduzione di G. Perrella dalla versione inglese di Jablensky (G. Perrella, op cit., p. 14; v. per la citaz. completa da Kraepelin), adottata anche da J. Douglas Bremner, op. cit. p. 71.

[10] Giuseppe Perrella, op. cit., pp. 23-24.

[11] Charles Figley (editor), Stress Disorders among Vietnam Veterans. Brunner-Mazel, New York 1978.

[12] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 41.

[13] Giuseppe Perrella, op. cit., p. 42.